du 21 au 24 octobre
De Marco Bellocchio
Avec Valerio Mastandrea, Bérénice Bejo, Guido Caprino
Genre Drame
Nationalités italien, français
Date de sortie 28 décembre 2016 (2h 14min)
Synopsis : Turin, 1969. Massimo, un jeune garçon de neuf ans, perd sa mère dans des circonstances mystérieuses. Quelques jours après, son père le conduit auprès d’un prêtre qui lui explique qu’elle est désormais au Paradis.
Massimo refuse d’accepter cette disparition brutale. Année 1990, Massimo est devenu un journaliste accompli, mais son passé le hante. Les blessures de son enfance tournent à l’obsession…
Interview Quinzaine de Marco Bellocchio ICI
Biographie Marco Bellocchio
Marco Bellocchio quitte l’Université pour intégrer l’Académie d’Art dramatique de Milan avant de passer par le Centre expérimental de Cinéma de Rome et la Slade School des Beaux-Arts de Londres. Après quelques courts métrages il réalise son premier long en 1965 : Les Poings dans les poches, remarqué par la critique.
Rompant avec le néoréalisme, le cinéaste crée des oeuvres baroques et engagées qui passent au vitriol les piliers de la société italienne : religion (Au nom du pere, 1971), famille (Le Saut dans le vide, 1979), et armée (La Marche triomphale, 1976). Il fait preuve d’une grande fidélité envers ses collaborateurs notamment des acteurs comme Lou Castel, qu’il a découvert, ou Michel Piccoli et Anouk Aimée, tous deux prix d’interprétation à Cannes en 1980 pour Le Saut dans le vide. Ses films subversifs sont entourés d’un parfum de scandale à l’image du Diable au corps qui a mis en émoi les festivaliers à Cannes à cause d’une scène de fellation.
Marco Bellocchio adopte une approche plus psychanalytique et moins provocatrice de ses personnages à partir des années 80 avec Les Yeux, la bouche et Henri IV, le roi fou (1984). Il s’inspire aussi plus fréquemment d’oeuvres littéraires comme pour La Nourrice, adapté d’un conte de Luigi Pirandello, et sélectionné au Festival de Cannes. Mais, à 60 ans, Bellocchio, continue de créer la polémique en Italie. En 2002, il suscite l’ire du Vatican avec un nouveau film sur l’Eglise catholique, Le Sourire de ma mère avec Sergio Castellitto, également présenté sur la Croisette, et, deux ans plus tard, en revenant sur l’assassinat d’Aldo Moro dans Buongiorno, notte, présenté à Venise, Bellocchio crée une nouvelle controverse dans un pays encore marqué par les « années de plomb ».
Trois ans plus tard, il revient avec Le Metteur en scène de mariages, un film où un réalisateur en fuite rencontre trois mystérieux personnages, et Sorelle, auquel il donnera suite en 2010 avec Sorelle mai. Ces deux films sont suivis de Vincere, un biopic sur la maitresse de Benito Mussolini et la montée du fascisme en Italie, prouvant qu’il n’a rien perdu de son mordant. Le film est présenté en compétition au Festival de Cannes en 2009, présidé cette année-là par Isabelle Huppert – une actrice qu’il dirige trois ans plus tard dans La Belle endormie, un postulat centré autour de la polémique de l’euthanasie.
A nove anni Massimo perde la mamma per un infarto improvviso – o almeno così gli dicono i parenti, riluttanti a renderlo partecipe della morte della donna. Dopo un’infanzia solitaria e un’adolescenza difficile Massimo diventa un giornalista affermato ma continua a convivere con il ricordo lacerante della madre scomparsa, nonché con un senso di mistero circa la sua improvvisa dipartita. Solo alla fine scoprirà come sono andate esattamente le cose, e troverà il modo di risalire alla luce.
Marco Bellocchio si cimenta con uno dei più grandi successi editoriali degli ultimi anni, il romanzo autobiografico « Fai bei sogni » scritto da Massimo Gramellini, giornalista de La Stampa. Come molto del cinema di Bellocchio, Fai bei sogni narra la storia di un’assenza: un sorriso negato, una porta chiusa con tanto di catenaccio, la rinuncia alla cura da parte di chi vi è preposto, la nostalgia bruciante di quella accoglienza assoluta e inesauribile che una madre dovrebbe (poter) dare ad un figlio amato.
Fai bei sogni, il libro come il film, è imbevuto di un rimpianto inconsolabile, e se il romanzo di Gramellini era strutturato come una sorta di detective story, il film di Bellocchio è un horror in cui Nosferatu e Belfagor sono i migliori alleati del piccolo Massimo, mentre i nemici indossano una maschera sociale spaventosa per non dover dire la verità ad un bambino: in assoluto, l’atto di coraggio più grande.
L’atto di coraggio principale di Bellocchio è invece quello di prendere il testo di Gramellini, sceneggiato dal regista insieme ad Edoardo Albinati e Valia Santella, nella sua accezione (e il suo valore) di narrazione popolare equivalente a quella delle canzonette che da sempre catturano l’essenza dell’Italietta, più dei saggi di antropologia culturale. Bellocchio, capace di vertiginose astrazioni e di altissimi afflati filosofici, racconta la storia di un salto nel vuoto attraverso i tuffi di Cagnotto e la caduta dell’aereo del Grande Torino sopra la collina di Superga, non mettendosi mai al di sopra di quelle « ovvietà che sconvolgono » e che sono la forza primordiale del romanzo di Gramellini perché parlano a tutti accantonando il comune senso del pudore (ma anche la spocchia da intellettuale) come si fa quando ci si scioglie nel ballo, rendendosi ridicoli e irresistibili nello stesso magico e imbarazzante istante. Le raffinate musiche di Carlo Crivelli sottolineano invece la presenza costante di un battito nascosto che viaggia in direzione contraria rispetto alla melodia di facciata, irrazionale e ingestibile come un attacco di panico, rivelatore di una verità che nessuna glassa superficiale può tenere nascosta.
Il contesto è quello della Torino dei tardi anni ’60 e poi di fine anni ’90, ugualmente caratterizzate da quella « falsa cortesia » e quell’abitudine a « negare, negare tutto » che sono imposizioni sociali ma anche scelte di vita. Un’Italia perbenista e perbene in cui circolano i finanzieri senza scrupoli dalla straniante enunciazione bellocchiana (attraverso la magnifica voce impostata di Fabrizio Gifuni), o i preti che insegnano astronomia riconducendo i loro alunni più inquisitivi al mistero della Fede. Sono loro le uniche eccezioni metaforiche ad una galleria di personaggi più quotidiani e reali di quelli cui Bellocchio ci ha abituato, senza sottotesti metafisici ma con segreti da nascondere prima di tutto a se stessi.
In questa favola nera dove non si sa dove siano finiti i bambini e dove nascondino diventa (come in fondo è sempre stato) un gioco crudele di sottrazione dell’affidabile e del certo, in questo non luogo dove tutti sono orfani e Pollicino non trova più la strada nemmeno se rimane inchiodato al lettino di casa, si diventa grandi « nonostante » le assenze e le disillusioni. Bellocchio accetta con umiltà il suo ruolo di narratore accessibile a grandi e piccini, correndo il rischio di incontrare quel seguito popolare che tormenta Gramellini da quando ha messo da parte la vergogna per permettere a milioni di lettori di fargli tana.